La metonimia e lo straniero: storia di una sparizione

Una delle distinzioni fondamentali su cui lavora Saussure è quella tra rapporti associativi e sintagmatici. I primi riguardano le associazioni possibili suggerite da un termine qualsiasi della lingua; i secondi riguardano “ordine di successione e di un numero determinato di elementi” (Cours de linguistique général, p. 152). E’ lavorando su questa idea che Roman Jakobson (1956) ha estremizzato il concetto. Nel linguaggio esistono due direttrici: una metaforica legata alla selezione e alla somiglianza, una metonimica legata alla combinazione e alla contiguità. Luisa Muraro (1981) ha sottolineato che il paradigma teorico nel quale ancora oggi ci troviamo invischiati è quello di una “ipermetaforicità” che schiaccia i rapporti metonimici su quelli metaforici. L’intervento si propone di mostrare quanto questo sia vero a partire da un testo fondamentale per il pensiero occidentale, la Retorica di Aristotele. Quella che riguarda la metonimia, infatti, non è una semplice idiosincrasia linguistica ma affonda le proprie radici in un problema antropologico-politico: nell’avversità verso chi ci è contiguo ma distante, prossimo ma non a contatto, verso quel che Aristotele chiama lo xenòs, lo straniero. Parlare per metonimie significa parlare dal punto di vista dello straniero, come se la nostra lingua non fosse del tutto nostra. Con due esiti: uno auspicabile, la formulazione di enigmi (indovinelli, cioè di domande estranianti), e uno temibile, l’involuzione linguistico-antropologica nel barbarismo (un umano non umano).

Marco Mazzeo, ricercatore in Filosofia del linguaggio, Università della Calabria