La lingua come modello per le istituzioni della moltitudine

La lingua ha una vita preindividuale e sovrapersonale. Concerne il singolo animale umano solo in quanto costui fa parte di una «massa di parlanti». Proprio come la libertà o il potere, essa esiste unicamente nella relazione tra i membri di una comunità. La vista bifocale, autonomo patrimonio di ogni uomo isolato, può essere considerata poi, a buon diritto, una prerogativa condivisa della specie. Non così la lingua: nel suo caso è la condivisione a creare la prerogativa; è il tra della relazione interpsichica a determinare poi, per riverbero, un patrimonio intrapsichico. La lingua storico-naturale attesta la priorità del “noi” sull’“io”, della mente collettiva sulla mente individuale. Per questo, non si stanca di ripetere Saussure, la lingua è un’istituzione. Per questo, anzi, essa è l’«istituzione pura», matrice e pietra di paragone di tutte le altre. Un giudizio siffatto non sarebbe pienamente giustificato, tuttavia, se la lingua, oltre ad essere sovrapersonale, non svolgesse anche una funzione integrativa e protettiva. Ogni autentica istituzione, infatti, stabilizza e ripara. La lingua, fatto sociale o istituzione pura, pone rimedio all’infanzia individuale, ossia a quella condizione in cui non si parla pur avendone la capacità. Essa protegge dal primo e più grave pericolo cui è esposto l’animale neotenico: una potenza che resta tale, priva di atti corrispondenti. È concepibile una istituzione politica, nell’accezione più rigorosa di questo aggettivo, che mutui la propria forma e il proprio funzionamento dalla lingua? È verosimile una Repubblica che protegga e stabilizzi l’animale umano nello stesso modo in cui la lingua svolge il suo ruolo protettivo e stabilizzatore rispetto alla facoltà di linguaggio, cioè alla neotenia?

Paolo Virno, docente di Filosofia del linguaggio, Università di Roma 3