L’instabile equilibrio della lingua

Intervista a Tullio De Mauro, a cura di Francesco Raparelli


Il nome di Ferdinand de Saussure, in Italia come nel mondo, è legato a quello di Tullio De Mauro, e viceversa. La traduzione e il commento che proprio del Corso di linguistica generale fece De Mauro nel 1967 ha modificato il segno degli studi dedicati al grande linguista ginevrino. Quando e come avviene l’“incontro” tra De Mauro e Saussure?

Ho raccontato già più di una volta che per chi studiava all’Università di Roma Glottologia, dagli anni Quaranta fino ai Sessanta, l’incontro con il professore che all’epoca teneva quest’insegnamento, Antonino Pagliaro, comportava fin da i primi minuti di lezione l’evocazione del nome di Saussure e delle sue nozioni di langue, langage e parole, di sincronia e diacronia. Pagliaro, che parlava normalmente in piedi, immobile, usava però rompere l’immobilità per servirsi della lavagna e si volgeva verso essa, tracciando gli assi che ammiravamo molto, l’asse della sincronia orizzontale e l’asse della diacronia. E quindi questo nome, per noi che studiavamo e ascoltavamo le lezioni, era abbastanza ovvio, sin dall’inizio. Devo dire, come sa chi conosce la storia della cultura linguistica italiana, che la cosa era non comune in Italia e, per la verità, anche nel resto d’Europa; questo per motivi diversi, di persistente estraneità al Cours e alla linguistica saussuriana in Germania, e per un affiochimento della presenza di Saussure nella stessa tradizione francese, per tutti gli anni Cinquanta, fino all’inizio degli anni Sessanta. In Italia era inconsueto questo richiamo dato da Pagliaro come ovvio, il «distinto glottologo ginevrino» veniva chiamato, qualche volta, per non ripetere il nome di Saussure. Questo è stato il primo incontro, che ha determinato poi andare a cercare il Cours e leggerlo, a capirci qualche cosa.

A rafforzare questo incontro c’era l’insegnamento di un altro linguista meno noto, morto prematuramente, e rimasto all’ombra di Pagliaro: si chiamava Mario Lucidi. Era una persona di ingegno assolutamente straordinario, fuori dal comune, non solo eccellente linguista, ma anche matematico, logico. Lucidi aveva scritto un notevole saggio sulla nozione di arbitraire du signe: già in questo lavoro dei primissimi anni Cinquanta, e poi soprattutto nelle conversazioni, sosteneva quella che sembrava allora una tesi molto paradossale, strana, comunque isolata. Sosteneva cioè che, in alcuni passi celebri nella discussione sull’arbitrarietà del segno che si leggono nel Cours, gli editori dovevano avere equivocato le parole di Saussure. Insomma, poneva un problema di revisione del testo e di ritorno alle fonti. E ricordo la sua gioia quando arrivò in Istituto, nel 1957, una copia del libro, fondamentale tuttora, di Robert Godel, Le fonti manoscritte del Corso di Saussure. Libro che, pur con grandi cautele, rispondeva al bisogno di verificare, sugli appunti degli alunni che gli editori del Cours avevano avuto sotto gli occhi, la bontà del lavoro editoriale e avanzava qualche dubbio su alcune mancanze di riscontri precisi. Quindi le conversazioni con Lucidi sono state per me un secondo incontro.

Dopo l’incontro, di cui ci ha dato conto, la traduzione del Cours: quale la genesi di questa avventura decisiva per il suo percorso di ricerca e per gli studi di linguistica più in generale?

L’immagine che avevo in quegli anni di Saussure era quella vulgata tra chi in Europa e negli Stati Uniti si ricordava di Saussure. L’immagine di un linguista che insiste sul primato della langue rispetto alla parole, punto di vista che a me sembrava criticabile, perché accettavo le critiche fatte da Pagliaro. Ancora, nel 1963, mi è capitato di scrivere in Storia linguistica dell’Italia unita, che bisognava ribaltare questo punto di vista saussuriano: la lingua che schiaccia chi la usa, gli utenti della lingua marginalizzati. Questo era quello che si pensava e si diceva, e si è in parte continuato a dire, ma sappiamo che non era questo, anzi, diciamo che, francamente, era l’opposto del punto di vista reale di Saussure. Del resto sarebbe bastata una lettura più attenta dello stesso testo tradizionale del Cours per rendersi conto della cosa. Ma l’ipnosi dell’immagine di un Saussure teorico del sistema e, in nome di questo, disattento al ruolo della parola e degli utenti, era fortissima.

Forse avrei conservato ancora a lungo questa subalternità ipnotica all’immagine vulgata di Saussure se, per fortunate contingenze, non mi fossi messo all’opera per tradurre e commentare in italiano il Corso di linguistica generale. Fortunate contingenze, voglio ricordarlo ancora una volta, perché in una fase in cui sembrava, agli editori più attenti, interessante pubblicare libri di linguistica, dalla casa editrice Laterza mi fu proposto di pubblicare una traduzione del Cours. Io, a mia vergogna, risposi all’inizio sdegnosamente, dicendo che “chiunque ‒ ricordo di aver affermato ‒ in Italia si occupa di linguistica legge e pratica già il Cours”. Lì per lì l’editore Vito Laterza mi dette credito, però, dopo qualche settimana, insieme al suo direttore editoriale dell’epoca, che si chiamava Donato Barbone, tornò sventolandomi la letterina dell’editore Payot. Laterza non si era fidata della mia perentoria affermazione e aveva chiesto a Payot qual’era stata ed era la diffusione in Italia del Cours. In quegli stessi anni, i primi Sessanta, ricomincia in Francia la fortuna editoriale del testo saussuriano, che aveva avuto un lungo languore, grazie alle discussioni, anche contese, tra Martinet, Benveniste e Jakobson, che riaccendono l’interesse per il linguista ginevrino. Payot aveva fatto la sua brava indagine e aveva risposto che il Cours in Italia aveva venduto poco più di una dozzina di copie, tra la riedizione del 1922 e gli anni Sessanta. Questo spinse l’editore Laterza a reinvitarmi a tradurre e a commentare il Cours. A questo punto, per sue ragioni di latinista e di studioso, Robert Godel, che era venuto all’Istituto Svizzero di Roma per un periodo di studi, mi cercò, e io gli dissi che avevo questo impegno, e Godel stesso mi offrì la possibilità di contattare Rudolf Engler che stava preparando la sua edizione critica. Engler, con una generosità di cui non gli sarò mai abbastanza grato, mi mise a disposizione le bozze dell’intera edizione critica. Quindi ho potuto lavorare già disponendo dell’edizione Engler, e mettendola a frutto, anche grazie alle conversazioni con Godel, con Engler e con altri studiosi ginevrini e svizzeri dell’epoca, ho potuto orientarmi completamente, credo, nell’avvicinarmi al pensiero di Saussure. Ho finito il mio lavoro saussuriano nel 1967 e questo è stato l’inizio di un rapporto continuo col pensiero saussuriano.

Un mio alunno molto bravo, Giuseppe D’Ottavi, mi ha chiesto di recente se io non metto troppo De Mauro in Saussure. Non credo. Invece certamente mi piacerebbe che ci fosse molto Saussure nelle cose meno indecorose che mi capita di scrivere. Credo che non ci sia, nella linguistica, autore al quale mi capiti di tornare così spesso per cercare di capire qualche punto del suo mobile pensiero. Tra i non linguisti, in senso stretto, certo ci sono altri, a cominciare da Wittgenstein. Per continuare, naturalmente, col mio professore e linguista Pagliaro, ma devo confessare che torno più spesso sulle pagine di Saussure e, forse, anche su quelle di Wittgenstein che non su quelle di Pagliaro.

Perché proprio oggi, nonostante l’esaurimento dello strutturalismo, cultura europea che ha segnato il secolo scorso e che ha visto in Saussure un riferimento fondamentale, il pensiero del linguista ginevrino conquista una rinnovata e potente attualità?

Credo che i cambiamenti di atteggiamento o, come pomposamente si potrebbe dire, di paradigma negli studi sul e del linguaggio, siano importanti; come l’emergere di orientamenti diversi nella corporazione dei linguisti. Ma, nella loro lunga storia, gli studi linguistici sono debitori più che a soprassalti endogeni, ai grandi mutamenti, alle grandi spinte che vengono dalla vita delle società e dalle culture intellettuali complessive che si sprigionano da esse. Ricordo e ribadisco questo punto di vista, che mi permetto di avere perché ho l’impressione che Saussure possa insegnare molto più oggi che in passato, in un passato immediato. Perché? La forza degli eventi ha costretto, negli ultimi anni, i linguisti a ripensare un’idea che avevano in testa, quella di un doppio monolitismo: monolitismo del rapporto tra lingue e paesi del mondo; monolitismo della lingua in se stessa.

Si può documentare, guardando i repertori delle lingue del mondo degli anni Sessanta e Settanta, che per i linguisti era pacifico che in ogni paese ci fosse una lingua e una sola. Con l’eccezione della Svizzera. Insieme alle vacche, agli orologi, alle banche, la Svizzera si contrassegnava per questa stranezza di avere più di una lingua. Caso strano, ma isolato. Non solo la produzione di un grande repertorio col sistema wiki, e quindi con largo apporto e collaborazione di Ethnologue, ha cambiato le cose. Ethnologue è stato possibile perché le cose stavano cambiando, perché nella realtà, per tanti motivi, da rivendicazioni di natura politica e civile dei diritti delle minoranze, a tanti altri fenomeni oggettivi, era ormai chiaro che i paesi in cui si realizzava quella strana idea che avevano i linguisti (ad ogni paese una lingua, ad ogni lingua un paese) erano un’eccezione minoritaria e che la norma vedeva in ogni paese del mondo la compresenza di numerose lingue native. Insisto su questo, perché la grande ondata migratoria che si sta verificando in tutti i paesi del Nord del mondo, proveniente dal Sud del pianeta, sta portando ovunque una grande quantità di lingue non native diverse. E questo è sotto gli occhi di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutti che in ogni paese, non solo in Svizzera, ci sono tante lingue nel senso ampio del termine e anche nel senso restrittivo, di lingue scritte, non solo di dialetti o dialettacci, come qualcuno qualche anno fa diceva. Insomma, è la realtà del multilinguismo che si impone. Una realtà ovvia, se appunto consideriamo che oggi le lingue vive del mondo, censite da Ethnologue, sono arrivate ormai a quasi 7.000 e che i paesi che hanno un seggio alle Nazioni Unite sono poco più di 200. Basta fare un conto per rendersi conto che qualsiasi paese ha in sé mediamente una trentina di lingue diverse. Certo, molte di queste sono dialetti, ma sappiamo che sono oltre 2.500 le lingue anche scritte, che hanno solidità e dignità non inferiore alle grandi lingue di circolazione internazionale.

Gli esiti anglosassioni dello strutturalismo europeo, penso al generativismo, soprattutto a quello degli allievi di Chomsky, tendono a fare di Saussure un oggetto da museo e si concentrano piuttosto sul presunto gene della grammatica…

Dunque multilinguismo, da una parte. Dall’altra, gli esiti dello strutturalismo e la forma estrema che lo strutturalismo ha assunto ‒ concordo nella definizione con Giulio Lepschy ‒ il generativismo chomskiano. Gli esiti di queste posizioni, strutturalismo classico e generativismo, hanno prodotto una grande quantità di descrizioni di lingue. E noi dobbiamo a questo, paradossalmente, la percezione sempre più accentuata del carattere tutt’altro che strutturale e generativo delle lingue. Ciò che è andato in crisi non è solo l’idea che ogni paese ha una lingua e una sola, ma anche l’idea che una lingua sia qualcosa di monolitico e di chiuso. Vediamo oggi, abbastanza diffusamente, e siamo in grado di darne conto, fenomeni di oscillazione continua nell’uso linguistico. Ci aiuta naturalmente, da qualche anno, lo sviluppo delle tecnologie. I linguisti, cinquanta anni fa, quando io oramai senescente cominciavo a studiare, avevano a disposizione fondamentalmente documenti scritti. Certo potevamo andare in giro a raccogliere l’uso parlato trascrivendolo, filtrandolo attraverso faticose trascrizioni. Insomma il mondo del parlato era un mondo magari vagheggiato, idoleggiato nelle prefazioni o nell’ideologia, ma in realtà la documentazione che avevamo era scritta, di tutte le lingue. Oggi ci aiuta molto la tecnologia che ci mette a disposizioni fiumi di documentazione del parlato. Per lo scritto ci aiuta naturalmente Internet, con masse sterminate di documenti per ogni lingua, per verificare, anche nello scritto, ciò che il parlato rivela in modo sfacciato e impudico: la natura oscillante, di campo di battaglia, tra tendenze opposte di ciò che diciamo una lingua. In altre parole ciò che chiamavamo una lingua, e i vecchi vedevano come qualcosa di monolitico, oggi tendiamo a vederla come la vedevano Hugo Schuchardt e Ferdinand de Saussure tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento.

Se torniamo agli appunti più che al Cours, ma anche leggendo queste luci nuove che ci vengono dalla contemporaneità dei fatti linguistici, non dei fatti della linguistica, altrettanto, leggendo nuovamente il Cours come ci è stato consegnato dagli editori, emerge come Saussure dica ripetutamente che ciò che chiamiamo una lingua è un traguardo verso cui convergono o possono convergere in modo mutevole e contraddittorio i parlanti. La lingua è la sedimentazione idealizzata o idealizzabile di bisogni espressivi che animano le parole e l’esprimersi degli essere umani concreti. Specialmente nelle lezioni del III corso, Saussure è molto esplicito su questo punto, sulla natura di equilibrio instabile temporaneo che si realizza nell’incontro-scontro tra le tendenze che guidano i parlanti nel loro esprimersi e nel loro comprendere. E spiega anche bene che le lingue scritte, per tanti motivi, possono mascherare in parte la natura continuamente oscillante dei punti d’incontro, dei traguardi, cui tende l’uso dei parlanti effettivi di una comunità. Possono dare un’impressione di stabilità, nello spazio e attraverso il tempo. Ma questa impressione di stabilità è illusoria, è come il ghiaccio sopra un corso d’acqua, sotto c’è il fiume che scorre. L’uso mutevole, impetuoso e sempre diverso, dei parlanti, sta sotto la crosta di ghiaccio apparentemente stabile dell’uso scritto e ogni tanto non possono esserci altro che frane, che agli occhi dello storico dei fatti linguistici si presentano come improvvise e impreviste, laddove nell’uso erano già andate maturando le condizioni che soltanto poi vediamo emergere nelle lingue scritte.

Questa visione di Saussure, la lingua come limite verso cui convergono gli usi concreti dei parlanti, mi pare possa servire oggi come bussola per orientarci in ciò che sta accadendo nelle realtà linguistiche di tutti i paesi del mondo. Mi pare possa rivelarsi, cioè, una bussola utile, molto più della obsoleta immagine della lingua monolitica, della lingua algebra-immobile che ci consegnava lo strutturalismo classico, in buona parte, e il generativismo del giovane Chomsky e dei chomskiani degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. In parte, anche per merito del loro sforzo di dare conto della lingua come un’aritmetica, tutte le eccezioni a questa visione sono venute in primo piano e credo siano sotto gli occhi di molti linguisti. Emerge così la necessità di una linguistica che sia in grado di aprirsi molto di più alla molteplicità di lingue coesistenti e ai fenomeni di oscillazioni che si accentuano per questa coesistenza.

Per concludere: Saussure può parlare, oggi, a chi vuole aprirsi alla descrizione e all’analisi dei fatti linguistici, più di quanto non potesse farlo in passato. La lettura di Saussure, secondo cui la langue come sistema finisce per schiacciare i parlanti, è perciò falsa rispetto ai testi saussuriani che sempre meglio abbiamo esplorato in questi ultimi Cinquanta anni. Ci si può chiedere perfino se tale vulgata non abbia potuto sussistere perché faceva corpo con la visione della lingua come monolite. Oggi quella visione della lingua non l’abbiamo più, sempre di meno fa presa su chi si occupa di linguistica e, quindi, si dischiude una nuova stagione per la lettura e l’uso del Corso di linguistica generale.